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La scomparsa del tempo

La scomparsa del tempo
27 Giu 2022

La scomparsa del tempo

Smettiamola di ragionare quadrimensionalmente, Doc!

Gli Amondawa vivono in Amazzonia e ignorano il tempo. Sono gli unici a farlo tra gli esseri umani, se escludiamo le fidanzate che si preparano per uscire. Non lo ignorano consa- pevolmente: non riescono a concepirlo. Comprendono l’alternanza delle stagioni e il ciclo del sole ma non astraggono il passato né il futuro. Come per noi, anche per loro il tempo è lineare, solo che non rimandano e non rimpiangono nel nostro stesso modo. Sono liberi. Non hanno date di compleanno: il passaggio di età avviene con lo sviluppo del corpo e corrisponde a un cambiamento di nome e status sociale. Niente regali da dover fare o anniversari da ricordare. E le loro donne girano a seno nudo. Amondawano: vero re fra gli uomini! In assenza di mesi o anni sul calendario, la tribù degli Amondawa sopravvive, senza che loro ne tengano il conto, da millenni. Nessuno ha mai tardato a un appuntamento o, perlomeno, nessuno se n’è mai accorto per rinfacciarglielo. Le donne amondawane non hanno ritardi: restano o non re- stano incinte. Non dicono mai “non vedo l’ora” nonostante la loro sia l’unica lingua in cui questa espressione abbia il significato letterale. Ora vi chiedo di pensare ai vostri affari come un amondawano. Immaginate che, caduti da un aereo ancora in fa- sce, foste precipitati nella giungla dell’Amazzonia, vi foste salvati e foste stati trovati da un capotribù. Avete trascorso la vostra vita, esclusi gli ultimi quattordici mesi, allevati dagli Amondawa; per poi essere ritrovati da una spedizione di avventurieri finanziata dalla fondazione voluta dai vostri parenti più prossimi allo scopo di ritrovarvi e riportarvi alla civiltà. In questi quattordici mesi vi hanno aggiornato velocemente: sapete tutto di come funziona il mondo, siete in grado di ordinarvi la cena su Deliveroo, parlate e scrivete correttamente. Ma non concepite il tempo. Escludiamo i problemi pratici: gli Amondawa non sono una popolazione chiusa e se devono prendere un appunta- mento usano il portoghese (la loro seconda lingua). Sono in grado di riconoscere il movimento del sole e l’alternarsi delle stagioni: quello che non sanno fare è “mappare” un evento nel tempo. Il fatto che esistano passato, presente e futuro come qualcosa di separato o che un certo evento deb- ba ancora avvenire, semplicemente viene rifiutato dalla loro mente. Ciò che vi chiedo è di mettere in dubbio la concezione del tempo che avete avuto finora; provate a immedesimarvi nella difficoltà che avrebbe un voi stesso amondawano nel concepire il tempo come si fa dalle nostre parti. Ci riuscite? Per aiutarvi nell’esercizio, vi fornisco qualche supporto “occidentale”.

Niente visite, signor Scrooge

Gli scienziati danno ragione agli Amondawa: gli indottrina- ti siamo noi. Scientificamente parlando, per lo meno. Che passato, presente e futuro siano separati, è un’illusione che percepiamo, ma non è reale. Come i colori. Come la temperatura. Con buona pace di Charles Dickens, non solo non può esistere alcun fantasma del Natale passato: non esiste alcun passato. Il tempo, come il Natale, è una convenzione sociale: entrambi sono reali al punto da spostare il Pil di una nazione e farci sentire in ansia per un ritardo nel comprare regali o più buoni quando avvertiamo nell’aria “atmosfera natalizia”; ma irreali. Come per il concetto di tempo: se non foste nati in un posto dove si festeggia la nascita di Gesù Bambino, avreste difficoltà a concepirlo. Un’altra informazione che potrebbe tornarvi utile nel pensare come un amondawano è quanto sia recente questa nostra “innata” concezione del tempo: tendiamo a pensare che esista un solo modo di pensare il tempo e che l’uomo lo abbia sempre considerato come tendiamo a farlo ora, ma non è così. Il tempo nacque con Newton; fu lui a dare centralità al concetto, facendogli girare intorno l’universo e donandogli una corposità di “cosa esistente” che prima non aveva. È un fenomeno che avviene spesso con la cultura dominante: un meme si radica in profondità e si diffonde tanto globalmente da farci pensare di essere non al cospetto di un’opinione diffusa, bensì di una realtà. Oltre a essere il principale oggetto di speculazione delle teorie complottiste è un fenomeno osservabile, riproducibile e in una qualche misura prevedibile. Peraltro, la nascita di una sovrastruttura del pensiero è analizzabile a posteriori: il successo delle teorie di Newton ebbe sul tempo un effetto simile a quello della poetica medievale sulla concezione di amore romantico (che divenne sinonimo di “cavalleresco”). Prima di Newton, per Aristotele ad esempio, il tempo esisteva solo se connesso con gli eventi. Se non c’è nulla che accade, non accade nulla: neppure il tempo esiste. Come mettere il film in pausa per un’ora. Fu Newton a separare il tempo dagli eventi e a considerarlo flus- so in grado di scorrere indipendentemente da ciò che accade. Così facendo Newton ha riservato al tempo lo stesso sgarbo di Spielberg al nuoto in mare aperto: associare significati e re- azioni emotive indotti, ma farceli percepire come spontanei e sempre esistiti, connaturati e inseparabili dalla stessa esperienza. Prima del film Lo squalo si nuotava in mare aperto più serenamente e la prima cosa che pensavi nel vedere una pinna fra le onde era: “Che fortuna, un delfino!”

Il passo del gambero

La fisica contemporanea sta tornando indietro: per comprendere il tempo dobbiamo ignorare il concetto di tempo lineare e fare finta – come gli Amondawa – che non esista. Se consideriamo il tempo non come qualcosa di esistente ma come una convenzione per misurare gli eventi tutto diventa più facile. Prendiamo il fuso orario: il sole si muove allo stesso modo, ma se ci spostiamo da un Paese all’altro, dobbiamo spostare le lancette dell’orologio. Se però ci muoviamo su un aereo, non percepiamo alcun cambiamento fino all’arrivo. Questo lo comprendiamo, perché consideriamo il fuso orario una convenzione: anche quando spostiamo in avanti o indietro le lancette dell’orologio nel passaggio tra ora solare e legale, sappiamo che non stiamo spostando il tempo ma il nostro modo di misurarlo. Dobbiamo liberarci dalle nostre certezze: fare come chi, per seguire una dieta a basso indice glicemico, di punto in bianco è costretto a considerare il pomodoro come un frutto e non più come un ortaggio; per poi scoprire con sorpresa di avere ragione. Il tempo è un’astrazione, una nominalizzazione; è più facile usarlo come punto di riferimento che definirlo. La maggior parte di noi resta con la stessa concezione del tempo del Doctor Graties: ovvero non ce l’ha. In una delle sue battute più celebri afferma: «Il tempo? Se non me lo chiedi so cos’è. Ma se me lo chiedi non lo so più».

Un’altra cosa in cui non crediamo più

Ora passiamo a un esercizio vero e proprio. Anzitutto ripete- te a voi stessi, ad alta voce, qualcosa della quale non credete l’esistenza. Va bene “Non credo in Dio”, se siete atei; oppure “Non credo negli Ufo”, se siete scettici; o “Non credo nell’a- more” se siete cinici; ma sarebbe meglio che tutti voi sceglieste qualcosa di meno ambiguo, per essere sicuri di non covare, nel profondo dell’animo, insospettabili e inconfessate spe- ranze. Ad esempio “Non credo che esista realmente Gotham City se non nelle opere di fantasia legate al fumetto Batman” va bene. Ma allo stesso modo, se optate per una frase corta, l’esercizio riuscirà meglio; per cui vi suggerisco di non scegliere frasi come: “Non credo che una pallottola d’argento uccida un vampiro” (che è legittima poiché funziona con i licantro- pi) e piuttosto optare per un secco “Non credo ai vampiri”. Se avete capito l’esercizio, ora siete pronti. Pronunciate la frase ad alta voce e fate caso all’intonazione che usate. Poi provate a pronunciare, con la medesima intonazione, la frase seguente: “Non credo nel tempo.” Fatto? Avete pronunciato la frase ad alta voce? E come vi sentite? Stupidi? Stupiti? Invece avete ragione. La differenza tra noi e gli Amondawa è che loro utilizza- no il tempo come uno strumento di misurazione, un punto di riferimento... ma sanno che è una cosa astratta che non esiste davvero. Noi utilizziamo il tempo come uno strumen- to di misurazione, un punto di riferimento, tuttavia siamo convinti che esista davvero. Ovviamente, se ci fermiamo a pensarci, abbiamo difficoltà a definirlo, se non con una de- finizione arbitraria (facile dire che un minuto corrisponde a sessanta secondi, più difficile spiegare il concetto di secon- do). Il tempo, così come il punto o lo zero, sono concetti utili che non esistono. Anche se abbiamo l’impressione che siano reali. Il tempo è un’illusione: tenace, poiché dà significato alla vita, ma pur sempre illusione e abbiamo esaminato, nell’ordi- ne, elementi esotici, scientifici, poetici e letterari per mettere in dubbio la monolitica certezza della sua esistenza. L’uomo ha inventato il tempo: quando ogni forma di vita cesserà di esistere e l’universo collasserà su se stesso, il tempo non esi- sterà più. Il tempo è strettamente correlato alla presenza di un cronometrista che lo misura. Nessun Bianconiglio, niente tempo. Bene, ci siamo tolti il problema del “quando”, ora dovrebbe essere semplice abban- donare il “dove”. Non me ne vogliano i giornalisti: restano il “come”, il “cosa” e il “perché”. E comunque, un’altra cosa che non esiste sono le nazioni.

Il patriottismo è service marketing

Il sovranismo è una sovrastruttura che ci hanno inculcato. Se mi avete seguito sul tempo, non avrete problemi a seguirmi anche su questo concetto: le nazioni sono confini disegnati a tavolino su una mappa che, al pari del tempo, non esistono e tuttavia sono punti di riferimento attorno ai quali organizzare le informazioni; nel caso del tempo, appuntamenti, scadenze, fasi lunari e altri eventi ripetitivi o passeggeri; nel caso delle nazioni, cultura, identità, abitudini, leggi. Questo modo di concepire il sovranismo sembra l’incipit per il “manifesto di un anarcoliberista moderno”, ma è solo semiotica. Alla domanda: “Cosa si trova ‘sopra’ l’Africa?”, la risposta è: “I vincitori”. Chi ha disegnato il mappamondo e ha deciso dove posizionare il piedistallo, lo ha fatto in modo che la rappresentazione standardizzata del globo conferisse ai com- mittenti un immaginifico ruolo di centralità e dominanza. Quindi le nazioni sono confini disegnati a tavolino su una mappa e, anche se determinano alcuni tratti distintivi del nostro modo di essere e pensare, non fa differenza. Per cui Europa, Asia, Africa, Oceania, America, e Internet, che cos’hanno in comune? Sono tutti luoghi geografici. Posti in cui vivere. Tuttavia, l’unico che “esiste” realmente e che si può toccare e spegnere è Internet: gli altri cinque sono convenzioni. Ok, se preferite, “non esistono” tutti allo stesso modo, il ragionamento fila uguale senza forzature: sono tutti luoghi virtuali, i primi cinque hanno anche una componente fisica, ma non più così predominante. Anche qui non fraintende- temi: so che “fisicamente” esiste il pezzo di terra dove sorge una città mentre “non esiste” la piazza virtuale, ma quella piazza virtuale non esiste così come non esistono il tempo e le nazioni e, nonostante ciò, abbiamo tutti sia un orologio che un passaporto. Siccome abbiamo tutti (anche) una connessione a Inter- net, proviamo, per un attimo, a paragonare Internet agli altri continenti e ditemi se sono più i punti in comune che quelli di contrasto.

Che cos’è un continente?

Un continente è una vasta zona di terra emersa, collegata da strade. Contiene al suo interno spazi convenzionali chiamati “nazioni”, nei quali gli abitanti interagiscono fra loro seguendo (o infrangendo) le regole stabilite dai governi di quelle nazioni.

Che cos’è Internet?

Internet è una rete di collegamenti informatici a livello planetario. Contiene al suo interno spazi convenzionali chiamati “website”, nei quali gli abitanti interagiscono fra loro seguendo (o infrangendo) le regole stabilite dai programmatori.

Conta come vivi, non cosa credi

Se il parallelismo vi pare forzato e non considerate Facebook una nazione, siete “gli ultimi giapponesi”.4 Se smettiamo di ragionare in modo romantico, astraendo i significati “emotivi” che attribuiamo a parole come Francia o Italia, stando ai numeri, Facebook non solo è una nazione, ma la terza più popolosa al mondo dopo Cina e India. Certo, questo dato ce lo fornisce lo stesso Facebook, quindi la fonte è sospetta, ma ciò vale anche per le fonti derivanti dalle altre nazioni, quelle non virtuali. Facebook è una pro- vincia dell’impero. Quell’impero è un sovracontinente, una nazione trasversale che chiameremo nazione liquida. La na- zione liquida è ovunque. Non ascoltate le parole: osservate il comportamento. L’Italia, la Germania, gli Stati Uniti, la Cina, esistono dentro la nazione liquida, non il contrario. Le evidenze di ciò sono nascoste dietro lo schema di quello che abbiamo sempre pensato, come nel processo a Galileo. Potreste obiettare che la maggioranza delle persone condivide la vostra opinione e non la mia: ma questo è vero se ponete l’attenzione su ciò che le persone dicono. Se spostiamo l’attenzione su azioni e comportamenti, le cose cambiano. Vi invito a notarlo: il vostro comportamento quotidiano è quello di cittadini della nazione liquida, non della favola che siamo abituati a raccon- tarci dai tempi della scuola.

Conclusioni

Anche se, formalmente, abbiamo la nostra identità naziona- le, passiamo la maggior parte del nostro tempo abitando una nazione parallela chiamata nazione liquida. Questa nazione virtuale ha impatto sulla nostra vita molto più del mondo “reale”. Forse dovremmo smetterla di pensare a Internet come a un elettrodomestico che si può accendere o spegnere e ini- ziare a comprendere che è un luogo reale a tutti gli effetti.

Cosa fare

►Dimentica i limiti e i confini nazionali.

►Pensa a Internet come a un “luogo”.

►Usalo per sostituire i limiti del mondo “fisico”.

►Pensa a te stesso come potenzialmente onnipresente o, se ti sembra blasfemo, pensa a te stesso come a Harry Potter e ai device collegati in rete come a delle passaporte.

►Comportati come un pioniere moderno, inizia ad abi- tare quel luogo e stabilisci dei presidi: è ancora tutto da colonizzare.

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